Notizie Radicali
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  lunedì 04 aprile 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Socialisti e radicali, un percorso comune

di Francesco Pullia

Libertà individuali, riforme sociali, netta separazione tra sfera civile e confessionale, antistatalismo, europeismo. Sono questi i caratteri distintivi dell’azione riformatrice di radicali e socialisti nel nostro Paese a partire dalla fine dell’Ottocento. L’occasione per una riflessione, in vista della convention di Fiuggi, ci viene offerta da due studi, strettamente connessi tra loro, dello storico Gian Biagio Furiozzi.

Docente di Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia, l’autore ha, infatti, pubblicato “Il socialismo liberale, dalle origini a Carlo Rosselli” (Piero Lacaita Editore, 2003) e “Socialisti e radicali nell’Italia contemporanea” (Franco Angeli, 2005), due libri che, se letti con la dovuta attenzione, mostrano quanto il cammino intrapreso abbia origini molto lontane.

Innanzitutto Furiozzi individua in Francesco Saverio Merlino e nell’umbro Luigi Pianciani (che, tra l’altro, fu sindaco di Roma nel 1873 e nel 1881) i precursori italiani di una visione socialista e liberale che affonda le proprie radici nel pensiero di John Stuart Mill ( i suoi Principi di economia sono del 1849) e in quello del francese Alfred Naquet, deputato radicale che nel 1890 diede alle stampe un testo significativamente intitolato Socialisme collettiviste e socialisme liberal in cui si confutava il collettivismo marxista ( “la disgrazia più spaventosa che possa precipitare sull’umanità”) per porre, invece, l’accento sulle libertà individuali.

Francesco Saverio Merlino, che amò definirsi “socialista libertario”, intravedendo i limiti del parlamentarismo che poteva degenerare in partitismo prospettò  un sistema di democrazia diretta che avrebbe dovuto comportare il ricorso allo strumento referendario, all’iniziativa popolare nonché il diritto di nomina e revoca degli amministratori pubblici. Polemizzando nel 1889 con Rosa Luxemburg, non esitò a ribadire la necessità di aumentare la partecipazione popolare all’amministrazione dello Stato tramite “il decentramento, l’autonomia locale, la forza della pubblica opinione, la libertà politica, insomma la democrazia”.

Anticlericale, massone, influenzato dalle teorie mazziniane e dai modelli politici dei paesi nordeuropei, che aveva potuto constatare di persona, Pianciani, all’incirca nello stesso periodo del Merlino, perorò, dal canto suo, un connubio tra socialismo e individualismo invitando nel 1861 gli italiani ad imitare il sistema inglese basato sulla garanzia assoluta delle libertà individuali contro ogni prevaricazione dell’autorità.

Al di là della Manica guardò con ammirazione anche Carlo Rosselli che nel 1924 pensò addirittura di fondare una Società Fabiana Italiana insieme a Nino Levi, Alessandro Schiavi, Piero Sraffa.

Nella tradizione inglese, infatti, il socialismo era maturato in un clima ben distante da influenze marxiste e presentava notevoli punti di convergenza con il liberalismo. Questa impronta si ritrova nell’insegnamento di Rosselli che alla dottrina di Marx, ritenuta incapace di ammettere l’esistenza di una sfera di libertà, contrappose una visione, appunto socialista e liberale, formatasi non come un sistema compiuto di idee ma in sintonia con le sollecitazioni provenienti dalla società.

L’originalità del socialismo britannico, laburista, risiedeva per lui nell’essere decisamente antimarxista, antiideologico, “amante dei problemi concreti”. Per l’ispiratore di Giustizia e Libertà, il socialismo era lo sviluppo logico del principio di libertà.

In netto anticipo rispetto alla situazione che verrà a configurarsi quarant’anni dopo l’uscita del suo Socialismo liberale (1930), egli criticò duramente la divinizzazione del proletariato e attribuì ai ceti medi un ruolo altrettanto importante di quello della classe operaia.

E, ancora, si volse ad una prospettiva federalista ed europea. Contrario ad ogni assolutismo, riteneva che il cammino della libertà cominciasse con l’autoemancipazione della coscienza individuale e attribuiva all’educazione cattolica, “pagana nel culto e dogmatica nella sostanza”,  la causa principale del mancato conseguimento di un’alta coscienza civile da parte degli italiani. In una lettera del primo ottobre 1928, indirizzata alla madre, scrisse che “i più hanno per solo scopo quello di farsi un posticino nel mondo come lo hanno trovato nascendo. I pochi tendono a modificarlo. E simili condizioni si pagano”.

E Rosselli ha sicuramente pagato duramente con l’incomprensione e la mistificazione, oltre che con la vita, lo scotto della sua lungimiranza se nel 1931 Togliatti, con grande ottusità, si spinse a definire la sua elaborazione come “una predica da pastore protestante” e, in tempi più recenti, Alberto Asor Rosa si è permesso di bollare la sua elaborazione come una “improvvisazione teorica”.

Al socialismo liberale, un altro pensatore, non meno originale, affiancò la propria concezione liberalsocialista. Si tratta di Aldo Capitini il quale apportò l’aggiunta inderogabile della nonviolenza e di un’ispirazione religiosa libera, non confessionale. Per lui la libertà doveva essere intesa “in senso dinamico” e il socialismo doveva costituire non il punto di arrivo ma, al contrario, di partenza per un rinnovamento radicale, sostanziale, globalmente e coralmente partecipativo. In questo senso, prima e forse in modo più affascinante di Popper, egli ha prefigurato una società autenticamente aperta in cui ognuno, anche il disabile, il morente, il “non produttivo”, è chiamato a concorrere alla creazione del presente.

Se riusciremo a fare tesoro di queste riflessioni, troveremo senz’altro spunti e spinte incredibili per andare avanti e costruire un nuovo che abbia in sé la ricchezza di un travaglio, di un appassionante percorso riformatore di cui la triade “Fortuna, Blair, Zapatero” rappresenta emblematicamente la sintesi più attuale.